Chi ha perso e chi ha vinto in Afghanistan

Editoriale di Aldo Tortorella n.4-2021

Può sembrare assurdo, ma non lo è, dire che la disfatta americana ed europea nell’Afghanistan è prima di tutto la sconfitta politica e morale del modo
di essere e di pensare della potenza dominante e dei suoi affiliati. Può sembrare assurdo il dirlo dato che i vincitori rappresentano il peggio, anche se di
fronte agli stragisti dell’Isis, loro avversari, ora vengano considerati come il
meno peggio. Ma i Talebani significano comunque il totale rifiuto della democrazia, la negazione di ogni diritto delle donne, il dogmatismo fideista, il
culto dell’ignoranza e sono addirittura giudicati un’accolita di narcotrafficanti, come ha scritto un intenditore qual è Roberto Saviano. Ma, ricordato
tutto questo, bisogna chiedersi che cosa abbiano fatto e abbiano rappresentato agli occhi della maggioranza del popolo afgano questi occidentali arrivati
a suon di bombe che hanno compiuto stragi di civili inermi e si dichiarano
convinti di rappresentare il bene contro il male, la civiltà contro la barbarie
oltre che la religione giusta contro quella sbagliata.

A seguire gli eventi attraverso il sistema informativo nostrano d’osservanza atlantica (e ad ascoltare qualche sciagurato politico italiano) sembrava che l’errore fosse stato tutto nelle modalità del ritiro delle truppe americane dopo l’accordo siglato con i Talebani da Trump ed eseguito da Biden: un
accordo che era, in sostanza, una resa. Trump ha seminato il vento e Biden
ha raccolto la tempesta. E questi per giustificare la fuga ha solennemente affermato che gli Stati Uniti non possono «partecipare ad una guerra civile che
non è la nostra». Dopo vent’anni di guerra a favore delle varie fazioni anti talebane potrebbe sembrare un pentimento tardivo, ma non era neppure questo.
Perché per mascherare la loro resa le amministrazioni degli Stati Uniti, cioè
lo “Stato profondo” e il sistema militare-industriale, avevano esse stesse preparato una guerra civile. Gli strepitosi strateghi del Pentagono e gli astutissimi esperti del Dipartimento di Stato programmando il ritiro contavano su
una guerra civile combattuta contro i Talebani da un esercito afghano “legale” perché governativo e armato con dollari a bizzeffe per la gioia dei mercanti d’armi.
Certo, sono in parte già in atto e in parte prevedibili tra le diverse etnie e
tra i vincitori stessi, date le divisioni interne, uno o più scontri, come quello
già in corso con i terroristi dell’Isis, che – secondo alcuni – sarebbero gli “internazionalisti” della “guerra santa” perché vogliono la Sharia nel mondo intero, mentre i Talebani, pur di medesima origine, sarebbero i “nazionalisti”.
Ma la guerra civile predisposta dagli statunitensi per fermare i Talebani non

c’è stata, anzi non è mai neppure cominciata. I Talebani, come si sa, hanno
compiuto una passeggiata fino a Kabul in pochi giorni, quasi senza sparare
un colpo. Per il semplice motivo che il governo “legale” e il suo esercito erano
un’invenzione degli occupanti a tal punto che si sono liquefatti istantaneamente nel tempo di un giro di cucchiaino, come gli estratti in polvere quando
si cala un po’ di acqua calda. Il governo con le sue propaggini era un concentrato di corrotti, mentre l’esercito era costituito da reclute in cerca di una qualche retribuzione per mantenere la famiglia. Il che ora lo si afferma pubblicamente mentre ieri i famosi “servizi” non sapevano o fingevano di non sapere.
Sino a far dire al presidente americano che i Talebani sarebbero arrivati a
Kabul dopo chissà quanto tempo, mentre quelli si stavano già insediando nel
palazzo presidenziale del premier scappato dalla porta di servizio e, certo, non
senza soldi.
Agli occhi della maggioranza di un popolo che in grandissima misura vive
con meno di due dollari al giorno, gli occidentali erano gli invasori stranieri
e i sostenitori di autorità generalmente corrotte e corruttrici. Qui sta il fallimento morale e politico dell’Occidente. Qualche progresso in alcune delle città
più importanti è stato fatto in questi venti anni per affermare il diritto delle
donne all’istruzione e all’autonomia, pur sempre, però, come spiegano tutti gli
osservatori, entro una minoranza. La cosiddetta “promessa della democrazia” che sarebbe stata “tradita” con il convulso ritiro di Biden e, prima ancora, con la resa di Trump, è stata in realtà agli occhi della più grande parte del
popolo afghano soltanto una feroce guerra di conquista.
Le vittime civili afgane si contano a centinaia di migliaia. Le migliaia di
miliardi di dollari e le centinaia di miliardi di euro sono andate quasi tutte
per le spese militari, e solo una minima parte, inferiore al 20%, ad assistenza umanitaria e a impegni civili preda anch’essi dei burocrati nazionali e locali. La realtà della condizione economica e sociale della più gran parte della popolazione delle campagne e delle periferie urbane era rimasta quella di
prima. La coltivazione del papavero donde si ricava l’oppio e l’eroina, di cui
l’Afghanistan è primatista (secondo gli uffici dell’Onu più dell’80% della produzione mondiale), rappresenta l’unico commercio redditizio e riguarda milioni di braccianti e di contadini duramente sfruttati dai signori della droga cui appartengono, a quanto pare, molti dei capi Talebani. Ma per costoro
anche questa partecipazione al mercato della droga, che assicura qualche
reddito per moltissimi, oltre a fornire risorse economiche per la guerra, non

è stato certo un ostacolo ma un incentivo nel presentarsi come i sostenitori
della causa del proprio paese, della propria tradizione, della propria religione e della propria economia contro gli invasori asserragliati nei loro fortilizi e rappresentati nella politica e nella società da un personale politico totalmente screditato.
Perciò i Talebani hanno potuto conquistare o riconquistare il consenso popolare, riorganizzarsi, riprendersi territori, resistere alle offensive americane (anche ai tempi di Obama), affermarsi come interlocutori politici e alfine
firmare essi da pari a pari quella sorta di pace con il governo degli Stati Uniti. Il quale dichiara dall’inizio alla fine di non riconoscere come Stato “l’Emirato Islamico dell’Afghanistan conosciuto come i Talebani”: ma alla fine stanno appaiate le firme dell’ambasciatore degli Stati Uniti e quella del capo dell’ufficio politico dei Talebani in quanto rappresentante dell’Emirato. E i Talebani, peraltro, erano stati sorretti e aiutati ad organizzarsi proprio dal governo americano per la guerra contro i russi alla fine del secolo scorso per poi
essere combattuti quando Bush (figlio) ordinò l’invasione dell’Afghanistan
dopo l’attentato alle Torri Gemelle perché pareva che Osama Bin Laden fosse laggiù: ma nel commando terrorista suicida e stragista, come si sa, di afghani non ce n’era neanche uno.
È comprensibile che i governi i quali hanno supinamente accettato e condotto la guerra aperta dagli Stati Uniti nel 2001 oggi esaltino i caduti. Ed è
doveroso esprimere da parte di tutti il cordoglio per coloro che hanno perso la
vita per rispettare il dovere cui si erano impegnati (cinquantadue in Italia,
centinaia in Europa, migliaia negli Stati Uniti). Ma questo non può significare una giustificazione di quella guerra. E anche in nome di quei caduti bisogna ricordare che fu una guerra non meno condannabile (come fece allora
anche il Pci) di quella voluta dal gruppo dirigente di una Unione Sovietica al
suo declino. La guerra cui anche noi abbiamo partecipato non ha diminuito
ma rafforzato il terrorismo, fornendo ai gruppi islamici che lo coltivavano e
lo coltivano anche la motivazione, dentro e fuori dell’Afghanistan, della lotta
all’invasore. La lotta al terrorismo ha certo bisogno delle misure di sicurezza,
ma l’arma fondamentale è la lotta contro le ingiustizie in ciascun paese e tra
le nazioni, l’affermazione di una politica di giustizia e di pace.
Non è una constatazione nuova. Per caso, l’inizio della marcia trionfale dei
Talebani ha coinciso con la repentina scomparsa di Gino Strada. Nel ricordarne la straordinaria opera umanitaria, che ha avuto in Afghanistan uno

dei suoi fulcri sin dal tempo dell’invasione sovietica, ci si è voluti generalmente
dimenticare la sua avversione non solo in generale alle guerre, ma anche e proprio a quella guerra d’invasione – fosse essa motivata dall’esportazione del sovietismo o della democrazia. E si è taciuto, soprattutto, delle accuse che gli furono lanciate come sostenitore dei Talebani perché nei suoi sempre più attrezzati ospedali interni alle zone di guerra non si curava di chiedere ai feriti
o ai moribondi da quale parte stessero combattendo. E dopo l’inizio della invasione americana che parve vittoriosa veniva irrisa la sua previsione che
quella guerra avrebbe fatto dilagare le posizioni della “guerra santa” contro
gli occidentali.
Un noto dirigente sindacale, Dino Greco, che allora operava a Brescia, ha
ricordato di aver una volta portato Strada in una fabbrica che produceva mine
antiuomo. Alle operaie che difendevano il proprio lavoro («se non lo facciamo
noi lo fa qualcun altro») Strada mostrò in un suo piccolo filmato le conseguenze
su persone inermi e donne e bambini di quelle mine. Ne seguì un mutamento
di opinioni, una lotta operaia vincente, il cambiamento della produzione. Ma
questo ricordo era su un privato sito di non molti cultori. La stampa più diffusa e le televisioni, pur nel ricordo spesso affettuoso del medico umanitario,
hanno ignorato la lezione vera delle idee cui Strada ha dedicato la vita.
Ogni esercito ha con sé anche i reparti sanitari ed è seguito dalla Croce rossa o Mezzaluna rossa del proprio paese. Strada, che pure aveva iniziato con
la Croce rossa, ha pensato e agito per un altro scopo. Egli ha mostrato che c’è
un’altra possibile versione della civiltà cui apparteniamo. Quella dell’internazionalismo dei diritti «per tutti, proprio per tutti», innanzitutto del diritto
alla vita minacciato o negato esso stesso da un’idea di società fondata sul primato del più forte nella gara di ciascuno contro ogni altro. Una versione di
giustizia e di pace che non ha il segno della croce per troppo tempo confuso con
quello dei conquistatori, una versione che oggi viene continuata da tanti altri
come sono, ad esempio, coloro che hanno dedicato se stessi alla salvezza dei
migranti in fuga dalle guerre e dalla fame. Ecco l’altro lato della disfatta occidentale in Afghanistan. La sconfitta politica e morale è di chi vuol dominare il mondo perché oggi è il più forte. La sconfitta è dei fautori di guerra. Politicamente e moralmente ha vinto Gino Strada, hanno vinto i fautori di giustizia e di pace.
Aldo Tortorella